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Una bella fetta di dati spessi, grazie

Una bella fetta di dati spessi, grazie

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di Alice Avallone

Nessuno può chiamarsi fuori, prima o poi il pensiero arriva: chissà che se ne stanno facendo dei nostri dati. A fine di ogni modulo accettiamo condizioni sulla fiducia e, il più delle volte, lo facciamo perché in cambio abbiamo un servizio gratuito. Apparentemente, certo. Una buona notizia c’è. Negli ultimi anni le preoccupazioni rispetto ai dati ci hanno resi tutti un po’ più diffidenti nei confronti della tecnologia, portandoci allo stesso tempo a diventare anche più competenti e più consapevoli che, per lo meno, a qualcosa questi dati servono.

Alcune aziende hanno annusato la tensione silente nell’aria, e hanno iniziato a fare da apripista coinvolgendo chi sta dall’altra parte dello schermo proprio con i loro stessi dati, restituendo un’esperienza di racconto piacevole, quasi umanizzata. È chiaro: se tu brand raccogli i miei dati per farne poi narrazioni e strumenti che possono tornarmi utili, allora ecco che sono più rasserenato nel farteli trovare e consultarli. L’impressione è che stiamo arrivando a un punto in cui iniziamo ad apprezzare le restituzioni significative basate sulle nostre tracce in Rete e, più in generale, stiamo scoprendo il valore delle impronte che lasciamo a ogni clic, commento, tap.

A oggi, gli algoritmi ci hanno viziato parecchio: ci osservano, ci ascoltano, e imparano a proporci ciò che ci piace, andando ad assecondare le nostre aspettative. Qualche settimana fa Pierfrancesco Favino al canale Instagram di crescita personale Mentericca.it ha detto: “Ascolto la musica per sentire la musica che non conosco, non la musica che conosco. Voglio andare a scoprire cose nuove, diverse. Io sono in evoluzione. Se tu mi tieni all’interno di un algoritmo che decide sempre che io devo essere quello perché tu gli hai detto “questo mi piace” e stai lì, che evoluzione hai di te stesso?”. Un’insofferenza, questa, comprensibile, ma se i dati iniziassero a raccontarci l’evoluzione che percorriamo di giorno in giorno?

Qualcuno l’ha già fatto, sotto il nostro naso: Spotify, YouTube, Apple Music. Con i loro racconti annuali sulle nostre abitudini individuali di ascolto, le principali realtà musicali hanno lavorato in modo trasparente sui dati comportamentali e, soprattutto, hanno reso il processo stesso un’esperienza divertente e interattiva. Prendiamo Spotify Wrapped, con il suo potere di coinvolgimento e diffusione: la raccolta delle informazioni restituisce un beneficio agli ascoltatori, ci fa capire qualcosa in più di noi, ci racconta il nostro anno. Umanizzando i dati, dando loro uno spessore maggiore, le aziende possono creare legami più profondi con clienti e consumatori, attraverso un engagement significativo.

Delta Airlines, già parecchi anni fa, aveva iniziato ad esempio a mappare una delle principali preoccupazioni dei passeggeri e a usare i dati per rispondere a un bisogno: sapere dove si trova il bagaglio che ho lasciato al check-in, e poterlo tracciare in tempo reale. Ecco, dunque, che si accende una luce sul futuro dei dati: la differenza sostanziale è offrire un’opportunità diretta di autoespressione (e di auto-racconto, in alcuni casi), dove il consumo non è più passivo, ma si diventa co-autori, che sia per svago con la musica o per bisogno con le valige. 

È pur chiaro che gli algoritmi continueranno certamente a svolgere un ruolo importante nella raccolta e organizzazione delle ingenti quantità di informazioni, ma ci sono altrettanto ingenti opportunità per le aziende di raccontare dati profondi e coinvolgere le persone in un processo di curatela. Sempre Spotify, nel luglio 2022, ha presentato la funzione “Friends Mix”. Pensato per far collaborare partner, amici e familiari, consente di vedere dove si fondono i propri gusti musicali con quelli delle persone a noi care, suggerendo in modo collaborativo nuovi generi e artisti. Un processo proattivo, insomma, che potrebbe rendere soddisfatto anche Favino. 

Infine, anche gli small data trovano il loro spazio. A fronte del termine più cercato dalla Generazione Z su Spotify, “sad”, la piattaforma ha ribattezzato gli ultimi mesi come “bummer summer”, che potremmo tradurre come “pessima estate”. Partendo da questo insight, minuscolo e profondissimo al tempo stesso, ha dedicato un’omonima playlist e una campagna di comunicazione proprio a questa invisibile espressione di vulnerabilità generazionale e alla sua conseguente ricerca di rielaborazione emotiva.

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